Scrivere nelle altre lingue

La scrittura implica sempre un rapporto con la lingua che non è mai meramente utilitaristico ma diventa, prima o poi, molto intimo. Maneggiare le parole, comporre e scomporre frasi, cercare ritmi, trovare espressioni, mutarle e inventarne di nuove non è solo usare una lingua, è lasciarsi influenzare dal suo carattere, assecondare la sua natura. Quanto più sentiamo di appartenere ad una lingua, tanto più possiamo imprimerle il nostro unico stile.
Le lingue cui apparteniamo sono quelle che abbiamo appreso nell’infanzia, in particolare quella nella quale abbiamo imparato a leggere e scrivere. Le altre, quelle che si aggiungono più tardi nel corso della vita, piano piano possono cominciare ad appartenerci, ma solo dopo una lunga frequentazione.
In alcuni casi ci facciamo perfino adottare da loro, allora è come se avessimo una lingua che è diventata una madre adottiva.
La realtà è anche più complessa, dato che molti sono stati scolarizzati in una lingua che non era la stessa con la quale avevano imparato a parlare. Questo può creare conflitti di appartenenza e forse anche un senso di imbarazzo davanti ad una lingua che finisce relegata nell’atemporalità dell’infanzia e non cresce con noi. Conosco persone che non sanno scrivere la lingua che usavano per parlare con i genitori e persone che scrivono solo in una lingua che hanno scelto volontariamente e hanno ripudiato la loro lingua d’origine.
Nel corso degli anni, per quasi ognuno di noi alla lingua d’origine se ne sono aggiunte altre e con ognuna di loro abbiamo un rapporto diverso. Il plurilinguismo è ormai una realtà estremamente diffusa. Al giorno d’oggi è quasi impensabile non conoscere e usare nel quotidiano almeno una lingua straniera, soprattutto per chi si muove in rete o vive in una nazione come la Svizzera.
Per me questo tema riveste un’importanza particolare. Ho lavorato come traduttrice e insegnante d’italiano, francese e spagnolo per molti anni e ho vissuto più anni in regioni di lingua tedesca che in regioni di lingua italiana. Ho seguito formazioni in tedesco e in inglese e parlo regolarmente in queste lingue con i miei amici.
Non ho mai voluto adottare il tedesco come se fosse la mia lingua. Ma a tratti ho avuto l’impressione di stare perdendo l’humus nutriente dell’italiano. Mi sono lasciata sedurre da altre lingue e ho pensato di fare di loro la mia nuova casa. Per molti anni sono stata innamorata del francese e ho ancora oggi un bisogno quasi fisiologico di ascoltarlo e di leggerlo.
Eppure abitare una lingua straniera genera sempre un senso di esilio e alienazione. Adottare nuove lingue o farsi adottare da loro è un processo delicato, che non può che modificare l’identità, le abilità espressive e la capacità di comprendere l’altro.
Ogni lingua porta ad un’altra percezione di sé e ogni lingua è un filtro diverso attraverso il quale si guarda il mondo. Quando parliamo una lingua o l’altra, non siamo mai esattamente la stessa persona.
Cercare di esprimere in modo soddisfacente in una lingua straniera contenuti personali importanti, è come tradurre sé stessi.
A volte, nei miei pensieri, le lingue si accavallano. Ci sono parole che mi vengono in mente in una lingua e non nell’altra. Ci sono parole che appartengono ad ambiti che ho vissuto in una lingua e non nell’altra. Quindi a volte faccio fatica a trovare le parole della mia lingua e questo mi dà un senso di impotenza, come se frammenti di me fossero tenuti ostaggio dalle altre lingue e io non possedessi più l’italiano nella sua interezza.
D’altro canto, ho paura che, se mi reimmergo interamente nell’italiano, perderò la frequentazione delle altre lingue e mi mancheranno.
Non sento il bisogno di apprenderne di nuove, ad eccezione forse del portoghese, che leggo e capisco relativamente bene ma non l’ho mai veramente studiato.
Mi piace l’idea di giocare con lingue nuove, imparare un po’ di vocabolario, combinare le parole e magari scrivere poesie semplicissime in lingue appena conosciute.
Ho una lista di parole nelle lingue più disparate, scelte per la loro bellezza e il loro suono. C’è per esempio questa combinazione di tre parole che mi sembra quasi un mantra: Yeleen Seli Sòn. Significa Luce Testa Cuore in Bambara (una lingua parlata nel Mali). Ho una raccolta di queste semplicissime combinazioni dalla quale un giorno nascerà qualcosa, non so ancora cosa…
Qualche anno fa ho cominciato a prendere in considerazione di scrivere un manuale per chi ama praticare la scrittura creativa in lingue straniere. È un soggetto appassionante, perché c’è un abisso tra la scrittura come esercizio per perfezionare una lingua o usata solo per necessità e una scrittura che sia esplorazione del proprio rapporto poetico con una lingua.
Ormai la scrittura per scopi meramente pratici si riduce nel quotidiano a tradurre con l’aiuto di Deepl o di qualche altro programma e poi correggere la traduzione automatica, oppure ricorrere all’AI per redigere mails, PR e altri testi di uso professionale. Oppure si scrive macchinalmente perché ormai si padroneggia solo un certo registro, che è diventato un automatismo e non ci si sofferma più a contemplare la lingua. La bellezza di una lingua ne risulta mortificata, la lingua non canta più nelle nostre orecchie.
Mi piace ascoltare poesie recitate in diverse lingue, anche lingue che non capisco. Ascoltare la poesia risveglia i sensi sottili, si capisce senza sapere cosa. Mi piace quel momento in cui in me prende forma un senso che forse non ha nulla a che vedere con quello che sto ascoltando ma che lo ha indirettamente ispirato.
Writing in Tongues è ovviamente un gioco di parole che fa riferimento a speaking in tongues, cioè la glossolalia, il parlare in trance con lingue ispirate, che sono parole sconosciute o suoni misteriosi.
La mia relazione con le lingue è forse la relazione più lunga di tutta la mia vita…