Ho cominciato a disegnare regolarmente all’inizio degli anni Novanta, durante un intenso periodo di crisi.

A partire dal 2008, si è aggiunto il lavoro digitale.

Il mio lavoro gravita intorno a concetti come identità, mutazione, trasformazione e soprattutto – come sempre – anima.

Forme organiche e astratte, frammenti di testo ed esseri antropomorfi si intrecciano in una rete di relazioni dinamiche che consentono interpretazioni aperte.

Le forme apparentemente ornamentali sono come elementi di un compresso alfabeto in costante evoluzione.

La ricerca di significati (evidenti o nascosti) è il mio secondo work in progress, che contribuisce a mantenere vivi i lavori. Ma questa fase non precede mai la creazione. Nulla è pianificato.

Realizzare i disegni, trovarne i significati possibili, vivere con loro e sperimentarne gli effetti: tutto questo fa parte del mio quotidiano.

Il termine anima si applica più al processo che al risultato: rifiutare l’intenzionalità cosciente, affidarsi al flusso di quello che vuole emergere, tessere minuziosi lavori fatti di minuscoli motivi che vanno a formare superfici che potrebbero estendersi all’infinito, percepire l’energia del lavoro compiuto, dargli un significato che può cambiare nel corso del tempo, sentire come questo lavoro è intimo e nello stesso tempo impersonale: anche questo penso sia fare anima.

Ho deliberatamente evitato qualsiasi forma di apprendimento dei principi formali dell’arte. Non volevo civilizzare o educare il mio lavoro. Sarebbe stato controproducente, quindi sono rimasta autodidatta, imparando da sola il meno possibile.

Dal momento che ho sempre avuto una certa bulimia da apprendimento, vietarsi di imparare è stato un po’ faticoso. Ma la sorgente inconscia che ispira il mio lavoro mi ha aiutato nel senso che, appena cercavo di imparare qualcosa in ambito artistico, vi stendeva sopra il velo dell’oblio e io lo dimenticavo. Mi rendeva refrattaria alle suggestioni esterne, mi faceva credere che quello che contava era solo continuare a creare, mentre cercare di speculare intorno al valore in termini di qualità o alla possibilità di costruirsi una carriera come artista erano distrazioni da evitare.

Il mio lavoro doveva seguire le proprie leggi. Io dovevo solo continuare a creare e scoprire che senso avesse.

Per andare avanti così ci voleva fiducia. Ma sentivo che stavo seguendo un sentiero nascosto.

Appena cominciavo a pensare che forse avrei dovuto migliorare la mia tecnica, sentivo che stavo tradendo la natura stessa del processo, che doveva restare anarchica e anche avulsa da ogni strategia auto-promozionale, altrimenti avrebbe perso la sua ragion d’essere.

Ovviamente, quando è iniziata la fase digitale, un paio di cose sul funzionamento dei programmi di grafica le ho dovute imparare. Ma anche in questo caso, usare i programmi intuitivamente era, entro certi limiti, preferibile.

 

I lavori fatti a mano sono per lo più realizzati con pastelli, matite colorate, acquarelli, acrilici, inchiostri e diversi tipi di penne.

L’elaborazione digitale è stata una rivelazione, perché ha dato ai miei disegni una seconda, una terza, una quarta vita. Esseri e forme hanno intrapreso un viaggio, durante il quale hanno assunto nuove identità.

Attraverso le mutazioni digitali, le forme ricevono nuove possibilità di esistere. Ogni disegno può sperimentare sé stesso come molti e riapparire in forme diverse.

I disegni si trasformano talvolta in motivi, che formano arazzi o tappeti (carpets & tapestries) virtuali: superfici dall’aspetto ornamentale, paesaggi – astratti e al tempo stesso organici – su cui l’occhio può vagare, provare emozioni o avere intuizioni.

Il processo di trasformazione digitale procede per fasi successive e può durare anche anni.

Gli elementi di un motivo sono come parole che si ripetono e formano un’eco.

Anche i disegni figurativi si possono trasformare in motivi che diventano superfici, dove la moltiplicazione e la frammentazione dell’io sono indirettamente tematizzate.

Carpets e tapestries sono essenzialmente opere meditative, per rilassare la mente e fornire ispirazione.

Mi piace lavorare con la simmetria. Crea un centro e un ordine che stabilizza la fluidità delle forme. L’ordine tiene insieme le forme, ma le forme non riescono a stare ferme, vogliono continuare a mutare.

 

Mi piace vedermi come un’artista volutamente marginale, vicina all’outsider art, non particolarmente interessata ad esplorare il significato dell’essere artisti. Avendo sempre avuto una certa difficoltà ad assumere ruoli e costruirmi una persona funzionante nella realtà, mi sono risparmiata la fatica di proiettarmi dentro ad una identità d’artista. Detto questo, se penso alle migliaia di ore investite a far nascere i miei lavori, suppongo che negli ultimi trent’anni ho fatto l’artista più di quanto credessi…

 

Nel corso degli anni ho visto che la mia arte poteva piacere alle persone più disparate e spesso per ragioni che mi sfuggivano.

Credo che il fatto di essere nata spontaneamente e di essere il risultato di un processo costante che ha accompagnato tutte le fasi della mia vita negli ultimi trent’anni – le crisi, le angosce e i momenti di sconforto, ma anche le fasi in cui si aprivano possibilità inesplorate, le epifanie e i momenti di pace interiore – la renda un po’ psicoattiva.

Ispirarsi volutamente al lavoro degli altri è sempre stato assolutamente vietato. Eppure involontariamente si finisce sempre con l’assorbire qualcosa che poi emerge senza che ce ne accorgiamo. Quindi nessuno può pretendere di essere assolutamente originale. A volte vedo in altri artisti somiglianze con quello che faccio e mi dico che tutti noi non facciamo che creare variazioni di schemi invisibili.

Quando c’è una grande proliferazione di forme che procedono senza un piano, a volte si parla perfino di arte psicotica. La cosa non mi disturba, penso che paradossalmente proprio quest’arte sia in grado di stabilizzare la psiche.

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