
Il soul writing vive delle forme brevi e dell’ibridazione tra le forme.
Come ho accennato, può usare le tecniche della scrittura creativa, perché è un ambito che incoraggia la sperimentazione.
Non è raro, nei manuali di scrittura creativa, trovare pratiche che applicano procedimenti inventati da correnti che in passato hanno dato impulsi rivoluzionari alla scrittura, come il surrealismo o il dadaismo.
Lo scopo di queste pratiche non è solo allenare la flessibilità espressiva ma anche andare alla ricerca dell’insolito.
Quando si pensa alla letteratura, si pensa ai romanzi, alle poesie e ai racconti, alle autobiografie e ai saggi, generi chiaramente definiti, codificati da regole che troppo spesso vengono infrante solo timidamente.
In un manuale lessi una volta che la poesia dovrebbe essere come un orologio di precisione. Se usiamo metafore così meccaniche, non possiamo aspettarci grandi sorprese, al massimo solo qualche exploit che sfiora la perfezione formale.
Le forme brevi si prestano bene agli esperimenti. Inoltre riescono più facilmente ad essere eloquenti e intense, perché la brevità impone automaticamente la densità. Il testo non è diluito, ogni dettaglio diventa significativo. Il testo breve rivela subito il suo carattere e l’energia che trasmette.
“Il linguaggio quotidiano trivializza, semplifica.
Il linguaggio poetico sceglie l’insolito, la densità, disturba la routine del parlare corrente.
Tramite il linguaggio poetico la vita riacquista spessore, la percezione si arricchisce e la vita ritrova un’espressione più autentica.”
[Lutz von Werder, Fondatore dell’Istitut für Kreatives Schreiben, Berlino]
Il linguaggio poetico è denso di risonanze che fanno vibrare i diversi piani dell’essere. La densità poetica è il risultato di un processo in cui esperienze, immagini, sensazioni, sentimenti, fantasie e pensieri si coagulano in poche parole che vanno a formare un’unità organica, una condensazione di senso.
Se la densità non genera confusione ma rimanda ad un livello superiore di coesione, a una sintesi, può essere in grado di far scattare una sorta di rivelazione difficilmente traducibile a parole. Si tratta di un avvenimento interiore, che, in senso lato, è quasi un quantum leap.
La poesia è nutriente e vivificante. Combina facilmente sogno e osservazione, spontaneità e calcolo, intuizione e abilità. È ingiustamente considerata più difficile della prosa, vista come elitaria, marginale o, peggio ancora, sentimentale. Ma ovviamente non deve esserlo. È la via più diretta all’espressione del senso e, a volte, più sembra criptica, più è eloquente. Basta rinunciare a voler capirla razionalmente.
La poesia esprime in modo diretto quello che la prosa può solo descrivere.
La poesia è veloce, come l’intuizione. Richiede maggiore concentrazione ma meno costanza.
Il lavoro poetico può essere discontinuo e portare ugualmente buoni risultati.
Ciò che conta è penetrare nello spazio poetico, che è uno spazio liminare, in cui si ruminano con tutti i sensi osservazioni, sensazioni, emozioni e pensieri finché qualcosa non si agglutina e prende lentamente forma. Oppure non si fa nulla se non meditare sul vuoto dal quale le parole-seme prima o poi emergeranno. Bisognerà coltivarle o lasciarle volteggiare liberamente, prima o poi andranno a formare qualcosa di inaspettato che esulerà dalle nostre intenzioni.
Tutte le ibridazioni tra poesia e prosa, i pensieri improvvisi, le costellazioni di frasi, la flash fiction – cioè la narrativa-lampo, solitamente composta da meno di mille parole – sono forme che meritano un posto importante in una raccolta di soul writing.
Quando si esula dal noto, si creano spazi nei quali possono abitare contenuti che nelle forme più prevedibili non si trovavano a proprio agio.
Quindi il soul writing è decisamente sperimentale, ma non cerca un’originalità fine a se stessa, perché non vuole essere originale, vuole essere autentico.
La sperimentazione è vicina alla dimensione ludica. Della triade che presiede al soul writing, cioè anima, senso e esperimento, è il terzo termine il depositario della leggerezza, che ci salva quando i processi diventano pesanti e tormentosi.
Ma un gioco non dovrebbe forse essere sempre fine a se stesso e pura espressione di una gioia gratuita?
Sì, ma in un contesto creativo il gioco è anche un po’ un mezzo. Le persone creative sembra che siano così aeree e giocose, ma in realtà per loro tutto è funzionale all’obiettivo di creare. Forse sono gli esseri più utilitaristici che esistano: usano tutto per nutrire la loro creatività, sono onnivori compulsivi.
Io in realtà non amo giocare, i giochi mi annoiano. Soprattutto non mi piacciono le gare d’abilità. Non mi piacevano i giochi per l’apprendimento delle lingue che organizzavo per i miei allievi. Loro li adoravano, quindi io mi conformavo. Era un modo per far loro piacere quelle lingue che dovevano imparare per ragioni spesso professionali che esulavano dalla loro volontà.
Ma, malgrado queste reticenze, ho sempre considerato la scrittura anche come un gioco, nonostante all’inizio, tanti anni fa, fosse soprattutto un processo tormentato e destabilizzante.
Nei giochi letterari si sonda anche il confine con il nonsense, che può aprire a sua volta la strada a nuovi livelli di significato. Si usano fonti di ispirazione disparate in modo eterodosso e ci si muove tra libertà totale e regole pedanti.
È uno dei paradossi del gioco il suo essere in questa tensione tra leggerezza e costrizione. Il gioco resta nella leggerezza quando allena l’abilità senza entrare in concorrenza con gli altri. Una gara non è più un gioco. Le gare sono cose per ragazzi che hanno bisogno di vincere per avere la conferma che valgono. Lo spazio della scrittura dovrebbe restare uno spazio inclusivo, privo di ogni antagonismo, e puntare solo all’esplorazione e alla scoperta dei propri criteri di qualità.