Trilogia di Belle

Fiabe

Quattro fiabe sul destino, l’identità e le peregrinazioni che ci fanno scoprire che siamo più di quello che credevamo.

Belle e la Bestia: una nuova versione della fiaba e il suo seguito.

Dopo l’incontro con Léon, la vita di Belle prenderà una svolta che la porterà a vagabondare alla ricerca di nuove parti di sé, guidata dalla saggezza della natura animata, che lentamente farà di lei una fata. 

Un gruppo di studiosi trova in un monastero sperduto il manoscritto di un maestro buddista che non somiglia per niente a ciò che si sarebbero aspettati…

 

La Bella e la Bestia è sempre stata una delle mie fiabe preferite. Da bambina, non capivo in cosa consistesse il problema nel fatto che la Bestia avesse apparenza leonina: i leoni erano animali più che seducenti… (Del resto non capivo nemmeno come si potesse avere paura dei lupi. Sono lupi, no? Quindi canidi, quindi creature affidabili, vicine al nostro cuore, anche se forse un po’ selvatiche… E anche sul trattamento riservato alle volpi nelle fiabe avevo qualche riserva.)

Ma ovviamente non è questo il punto. La Bestia è un maschile ferino perché è ferito e Belle è la redentrice, il femminile che sa istintivamente che l’amore guarisce.

Ma nella figura di Belle vedevo un potenziale che andava oltre e chiedeva ulteriori sviluppi.

Nella prima parte della storia la saggezza di Belle è ancora istintuale, è solo la sua indole. Ma per manifestare il suo pieno potenziale, Belle deve reinventarsi, incontrare la propria ombra, scoprire i suoi veri talenti e infine approdare in una dimensione che è una sorta di trasposizione dell’istinto sul piano animico e corrisponde nella fiaba al regno degli spiriti della natura.

Nella terza fiaba, ambientata al giorno d’oggi, c’è un nuovo personaggio, che fa, in maniera totalmente diversa, una transizione simile a quella di Belle.

 

Le fiabe si prestano bene al soul writing, perché la narrativa deve essere sintetica e ogni dettaglio significativo.

All’origine la trilogia di Belle era uno dei lavori da realizzare durante la mia formazione in pedagogia della scrittura presso l’Institut für Kreatives Schreiben di Berlino. Quindi l’avevo scritta in tedesco. Ho ripreso il testo, l’ho tradotto in italiano, l’ho ampliato e – credo – un po’ migliorato.

Traducendolo, ritrovavo l’italiano e mi accorgevo quanto scrivere in un’altra lingua sia sempre, in parte, scrivere con parti diverse di sé, o perlomeno scrivere con un atteggiamento diverso, come se l’io scrivente fosse un altro. È la musica della lingua e la sua struttura che dettano il ritmo. Da una lingua all’altra, benché il contenuto resti uguale, l’energia cambia, perché i suoni e le strutture cambiano.

Anche il quarto racconto della raccolta, Frammento del giovane Sarg, ha un’origine piuttosto particolare.

Una parte cospicua della storia, cioè la maggior parte del testo redatto dal vecchio maestro buddista, è molto vecchia e risale agli anni Ottanta. Il resto invece, cioè la breve vicenda che fa da cornice, l’ho scritta nel 2022. Considerato che nella storia il frammento del maestro risale a circa quattrocento anni fa, il fatto che  sia stato scritto quattro decenni fa mi sembra non solo ironico ma anche molto appropriato.

 

Sono disponibili la versione Kindle a formattazione fissa e il libro cartaceo.

Ecco l’inizio del Frammento del giovane Sarg.

 

Raggiungemmo il monastero che era ormai tardo autunno e la neve aveva già coperto gran parte dei sentieri.

Non ce l’avremmo mai fatta senza l’aiuto degli abitanti dei villaggi a valle. La regione era rocciosa e inospitale, percorsa da venti gelidi.

Mi chiedo ancora oggi cosa ci abbia fatto resistere durante le due settimane necessarie per raggiungere la nostra meta, della quale avevamo appreso l’esistenza solo poche settimane prima, in territorio cinese.

Ce ne avevano parlato dei monaci. Ci avevano rivelato che in quel monastero era conservato un testo alquanto anomalo rispetto a quanto si usa trovare nelle biblioteche che custodiscono antichi testi religiosi.

Non potevamo certo ignorare questa rivelazione. Siamo studiosi di testi antichi e venir a scoprire l’esistenza di un manoscritto che probabilmente datava del XVII secolo e il cui contenuto era considerato fuori dalle norme non poteva lasciarci indifferenti.

All’origine la nostra spedizione aveva avuto scopi più modesti. Si era trattato di catalogare testi del XVIII secolo conservati in una minuscola biblioteca situata in una provincia della Cina meridionale. Come vedete, nulla di particolarmente avventuroso. Ma eravamo ricercatori e non penso esistano ricercatori che non siano anche un po’ esploratori, se non proprio avventurieri.

Non fu quindi difficilissimo decidere di fare un’escursione in una zona a qualche centinaio di chilometri dalla nostra destinazione originaria per andare alla scoperta del testo misterioso.

Il fondo universitario che ci finanziava fu dovutamente informato e la sua reazione – devo purtroppo confessarlo – fu alquanto cauta. Non ci diedero subito il loro assenso. Ci raccomandarono di lasciar perdere, poiché probabilmente si trattava di un testo insignificante. Del resto nessuno aveva mai sentito parlare di quel monastero e nemmeno di quello strano maestro.

Eravamo in sette, tutti ancora piuttosto giovani. C’erano tra noi anche due dottorandi ma per il resto eravamo tutti già esperti nell’analisi di testi in cinese antico. Quindi, se avessimo trovato il documento in questione, non ci avremmo messo molto a capire di cosa si trattava veramente e se il nostro interesse era giustificato o meno.

Irina e Gregor erano eccellenti nella traduzione del cinese del XVII secolo e Marya conosceva il dialetto della regione verso cui ci saremmo diretti. Il viaggio si prospettava faticoso ma non costoso, e l’idea di tornare a casa con una perla rarissima e strofinarla sotto il naso dei colleghi del fondo universitario costituiva un ulteriore incentivo e per nulla trascurabile.

Come ho già accennato, il viaggio fu veramente disagevole, molto più di quanto ci saremmo aspettati. Era difficile immaginare che qualcuno avesse, secoli orsono, costruito un monastero in un luogo così impervio e lontano dal mondo.

Ma quando arrivammo a destinazione, esausti e intirizziti, fummo accolti dai monaci con una gentilezza squisita. Ovviamente furono anche esterrefatti al vederci. Eravamo i primi studiosi che li onoravano di una visita.

C’è da chiedersi quanti altri luoghi sperduti esistano al mondo che racchiudono tesori che nessuno ha ancora portato alla luce…

I monaci erano una ventina. I più giovani avevano all’incirca cinquant’anni, l’abate invece doveva averne almeno ottanta ma ci parve una mente sveglia e perspicace.

Capì subito cosa cercavamo e ci confermò che il testo esisteva veramente ma purtroppo non era integro. La narrazione originale doveva essere stata molto più lunga di quanto restava.

Fummo stupiti di sentire che il manoscritto originale era danneggiato. Di solito testi di particolare importanza, soprattutto se redatti dai fondatori di un monastero, vengono custoditi con la massima cura.

In questo caso si trattava di cinque rotoli, dei quali solo il primo era praticamente intatto, mentre gli altri erano quasi completamente sbiaditi. Solo poche pallidissime parole risaltavano ancora su una superficie giallognola che non rivelava più nessuna traccia d’inchiostro. Era veramente insolito. Non ci era mai capitato di vedere un testo di quell’epoca che si fosse volatilizzato in quel modo e del quale rimanesse solo il supporto.

Ci dissero che il clima era ostile – l’avevamo notato… – e nel corso dei secoli le intemperie avevano danneggiato molte volte l’edificio.

L’abate accennò inoltre al fatto che l’atteggiamento dei monaci delle generazioni passate nei confronti del documento era stato piuttosto ambivalente, dal momento che il suo contenuto non sembrava avere la funzione di dispensare insegnamenti, narrare parabole o presentare l’esegesi di testi canonici.

L’abate però non dimostrò alcuna reticenza nel mostrarci il manoscritto. Ci permise di fotografarlo e non si oppose alla sua traduzione. Ci disse che non vedeva alcuna ragione di mantenere la sua esistenza segreta. Anzi, era convinto che il suo contenuto sarebbe stato recepito nel ventunesimo secolo in un modo che gli avrebbe reso giustizia.

Aveva cercato di leggere il testo molti anni addietro, come i suoi predecessori. Era l’unico documento scritto che il fondatore dell’ordine avesse lasciato, quindi almeno provare a leggerlo era qualcosa di più che un dovere.

Ma il testo non era di facile comprensione. Era scritto in parte nel cinese dell’epoca – cosa che non sollevava problemi particolari – ma era anche intercalato da frasi ed espressioni in varie altre lingue, presumibilmente europee, che non erano conosciute da nessuno dei monaci. Lo stile era inoltre piuttosto elaborato, molto diverso dalle narrazioni che si rifacevano ai canoni della tradizione.

In quelle condizioni non si poteva trarre dal testo alcun insegnamento diretto. L’insegnamento c’era sicuramente, ma si sarebbe dovuto meditare a lungo sui significati nascosti e il fatto che la comprensione letterale fosse irta di ostacoli non facilitava le cose.

Il Maestro Silenzioso del Monte Ma Wren non aveva lasciato nient’altro, nemmeno una regola scritta, una lista di raccomandazioni, preghiere o inni sacri. Nulla se non quel manoscritto che non sembrava essere di contenuto religioso, ma che doveva per forza esserlo. Il suo mistero si sarebbe dischiuso solo a chi sapeva decifrarlo.

Il monastero era da secoli una piccola comunità che si consacrava alla contemplazione del vuoto luminoso, che nella tradizione buddista è chiamato sunyata.

Ma pare che l’intento del Maestro Silenzioso non fosse stato quello di istituire un ordine, bensì di costruire un rifugio in un luogo appartato, lontano dalla civiltà. Nessuno l’avrebbe trovato se non per vie traverse, chi per sentito dire, chi per essersi perduto in queste montagne, come era avvenuto per lui.

[…]