«Se un testo non ti aiuta a capire ciò che ti circonda e ad attraversare le acque torbide della tua esistenza su questa terra, perché darsi la pena? Non affannarti a redigere un testo che non ti cambia, che non ti fa vedere le cose da un punto di vista diverso.
La strada della letteratura è la strada dell’incertezza.”
Rafael Chirbes
“Il testo diventa per il suo autore un messaggio di sé, su di sé, per sé ma anche per gli altri. Diventa un mezzo per cercare di capirsi, raggiungere un sentire del senso, una più profonda comprensione di sé, delle proprie relazioni e della propria vita nel mondo.”
Hilarion Petzhold, cofondatore della “Integrative Poesietherapie”
Cos’è il Soul Writing
Soul writing è il nome che ho dato alla mia pratica di scrittura. Perché assegnare un nome a qualcosa che, per esistere, non lo necessita?
È un nome dato a posteriori: non ho deciso, ad un certo punto, che avrei scritto in modo da adeguarmi al concetto di scrittura dell’anima, un termine peraltro vago, che dà adito a molteplici equivoci. Non si tratta nemmeno di un programma al quale attenersi, è piuttosto un modo per racchiudere in una parola una serie di processi e finalità e vuole rispondere al bisogno di dare alla mia scrittura un’identità riconoscibile, fosse solo davanti ai miei occhi.
Dopo molti anni di pratica (alquanto discontinua), mi sono resa conto che il mio modo di praticare la scrittura aveva delle peculiarità e sono sicura che queste siano condivise da molte altre persone, che – a mia e forse anche a loro insaputa – praticano un tipo di scrittura simile.
Cosa intendo per soul writing?
Una scrittura che ha tratti introspettivi, visionari, poetici e sperimentali, una scrittura che vuole essere esplorazione dei mondi interiori e osservazione della vita alla ricerca del senso e soprattutto della prospettiva dell’anima.
A questo punto è d’uopo definire cosa intendo per anima, termine che amo molto usare proprio perché sfugge ad una definizione univoca ed evoca associazioni molteplici, tutte rivolte verso l’invisibile.
Ma si dà il caso che io abbia una definizione d’anima e non voglia lasciare il concetto nel vago e nemmeno appoggiarmi ai millenni durante i quali questa parola ha vagabondato tra teologia e poesia per approdare all’epoca in cui è diventata solo un sinonimo della sua fragile figlia, la psiche. Ma se psiche è una farfalla, anima è un arazzo.
Io concepisco l’anima come quella parte del nostro essere che vede l’interezza degli eventi e dei processi che formano la nostra vita, ne riconosce l’essenza ed è depositaria del piano che presiede al dipanarsi della nostra esistenza.
Questa visione dell’anima corrisponde ad un sentire interiore che mi ha accompagnato per la maggior parte della mia vita. Anche nei momenti di grande crisi, quando la psiche era disorientata e angosciata, sentivo la presenza di un’altra, che sapeva e comprendeva e nella quale amore e saggezza erano una cosa sola. Di questa altra, io ero un’estensione ed ero privata della sua prospettiva onnicomprensiva, che travalicava il tempo e lo spazio e vedeva non solo il significato delle cose ma anche la loro finalità. Sentivo che, con il tempo, ci saremmo avvicinate e grazie a ciò io avrei finito con l’acquisire un po’ più di amore e saggezza.
Da qui è sorta piano piano l’idea che un’arte che fosse orientata all’anima dovesse essere espressione della tensione verso il senso ma anche strumento di guarigione e di celebrazione della complessità dell’esistenza.
Ma di solito non è l’anima che scrive, è il piccolo io, che dà voce alla psiche e a volte racconta – ma senza identificarsi troppo – le vicissitudini di un’anima incarnata. Quindi la scrittura diventa una ricerca di quel punto di transizione tra ciò che è intimo e ciò che è universale.
Eppure certe volte anche l’anima comunica direttamente e il piccolo io funge da umile traduttore. Allora nasce qualcosa che somiglia ad una versione postmoderna della poesia mistica o ad una sorta di canalizzazione poetica. Ma sono momenti piuttosto rari e lo scopo del soul writing è più modesto.
Lo voglio definire come una scrittura che sia un passo al di là dell’intimismo, del gioco creativo e della scrittura letteraria in senso stretto.
È anche una pratica che combina e mescola i generi e sperimenta con forme diverse per creare testi ibridi ed evocativi. Testi introspettivi o (auto)biografici possono coesistere con testi fantastici e visionari, con poesia e prosa breve (flash fiction). Ma anche il mini-saggio filosofico o la scrittura meditativa e contemplativa possono essere soul writing.
Il soul writing non è una pratica terapeutica in senso stretto, benché le finalità di un lavoro introspettivo con tendenze transpersonali sono sempre indirettamente terapeutiche. Ma quello che voglio non è una pratica con una finalità estrinseca, che sia al servizio di qualcosa d’altro che non sia il tradurre, in modo sempre parziale e necessariamente approssimato, la tensione tra io, psiche, anima, spirito.
La penso come qualcosa di molto diverso da un mero lavoro alla scoperta di sé stessi. Non voglio che sia relegata tra le pratiche di autopromozione dell’io, in cui la scrittura e l’introspezione si trasformano in strumenti per migliorarsi, scoprire il proprio potenziale e tutto ciò che ostacola il suo manifestarsi. In fondo si chiama soul writing e non better me writing o self-empowerment writing…
Come diceva il vecchio Hillman, “Nel regno dell’anima, l’io è poca cosa.” Ma il piccolo io non è né trascurabile né prescindibile, poiché senza di lui il viaggio terreno sarebbe impraticabile e gli sforzi per trovarvi un senso rischierebbero di vanificarsi. Diciamo piuttosto che l’io è uno strumento per adempiere agli scopi dell’anima e non è il vero protagonista della nostra vita.
Pensiamo sempre che si tratti solo di noi, ma noi cominciamo veramente ad esistere quando decidiamo di collaborare con forze che ci trascendono.
L’io si dibatte, si vuole tutto il tempo (ri)costruire, ma ascolta le voci sbagliate, è corruttibile perché è nato in e per questa dimensione, che sembra così limitata finché non la si guarda in trasparenza. Eppure l’anima ama l’io come un figlio prediletto e si compiace della sua buona volontà.
Quindi anche il soul writing deve essere una scrittura che ama l’io e non lo mortifica, al massimo lo decostruisce.
Ma ora cerchiamo di essere un po’ più pratici: cosa intendo concretamente per soul writing?
Detto in termini molto riduttivi: una forma particolare di scrittura creativa.
Non ci sono tecniche specifiche al soul writing. Si può attingere dalle migliaia di tecniche inventate nell’ambito della scrittura creativa ma usarle con un intento differente, meno rivolto all’espressione puramente creativa che al disvelamento di successivi strati di significato che assumono gradatamente una forma compiuta che ci rivela qualcosa che era rimasto fino a quel momento latente.
Le tecniche creative vengono inoltre integrate da pratiche meditative, immaginative e psicofisiche.
Si tratta soprattutto di creare uno spazio che favorisca la produzione di testi, il cui scopo non sia solo espressivo ma anche trasformativo.
Sappiamo che un atto, per essere creativo, deve essere compiuto in modo diverso rispetto a quanto appreso e generare un risultato o un’esperienza nuova. La scrittura creativa in generale è quindi la ricerca di possibilità espressive nuove e un uso eterodosso delle tecniche e dei generi di scrittura conosciuti.
È solitamente praticata come esperimento, come strumento di autoanalisi e anche come gioco espressivo e liberatorio. Si scopre progressivamente la propria voce e si scelgono gli strumenti più consoni per svilupparla. Si può sperimentare con le tecniche più disparate – questa è la parte ludica – o se ne possono inventare di nuove.
La finalità non è costruirsi un ruolo o una carriera di scrittore/scrittrice ma creare un corpus testuale.
Si scrivono testi che hanno per noi una funzione e un valore particolari. Sono testi destinati a noi stessi o testi che verranno condivisi e volendo anche pubblicati.
Il soul writing non è solo pensato come processo interiore, ha anche una dimensione di condivisione, che però non è indispensabile. Si può fare soul writing in assoluta solitudine, far leggere i propri testi a due o tre amici o pubblicarli solo su un blog. Non ha importanza. Quello che conta è che sia una scrittura che, in qualche modo, espanda la coscienza e ci faccia intuire l’ordine superiore che presiede alle nostre esistenze.
I testi devono acquisire una qualità un po’ magica, essere energia condensata, contenere mini-rivelazioni, essere piccoli trattati o fantasie che fanno succedere cose in noi e, a volte, anche intorno a noi.
Anche se questi testi si posizionano al di fuori del discorso letterario, non significa che debbano essere amatoriali. La cura dello stile è parte integrante del processo.
Il soul writing parte dalla scrittura creativa ma va molto oltre. Proviamo a fare un esempio.
Mettiamo che io senta il bisogno di scrivere un testo su un avvenimento che ha marcato la mia vita. Una possibilità sarà raccontare ciò che è accaduto. Posso sforzarmi di raccontarlo bene, magari esercitandomi nella scrittura avvincente come viene proposta dai vari manuali per aspiranti romanzieri (sai cosa intendo: plot, caratterizzazione dei luoghi e dei personaggi, suspense…). Procedendo in questo modo, mi reimmergo nel ricordo, lo rivivo e scopro rivolti della vicenda che mi erano sfuggiti mentre la vivevo oppure decido di partire per la tangente, fare dell’autoironia o dell’autofiction. Il risultato può essere accettabile e avere un certo effetto anche catartico, ma siamo ancora molto lontani dal soul writing.
Il secondo livello è quando raggiungo la sintesi dell’avvenimento e non mi concentro più su cosa è successo bensì su tutto ciò che ho provato e riesco ad esprimerlo con parole dense che non solo evocano il sentire ma lo svelano. Mi sto lentamente avvicinando all’anima ma non ci sono ancora. Però ho già molto di più di quello che avevo quando scrivevo un racconto che occultava il sentire per mettere in avanti i fatti, che sembrano sempre così eloquenti ma raramente lo sono: l’apparente chiarezza dei fatti acceca. La comprensione profonda è sempre aldilà delle apparenze.
Naturalmente posso indulgere anche in un’analisi che prende in considerazione aspetti sociali e antropologici e anche questo vuole la sua parte, ma non mi posso fermare qui, perché resterei ancorata al livello dell’io e del suo posto nel mondo e questo non mi basta.
Il terzo livello è quando non solo sento, ma rifletto e mi avvicino all’intuizione del senso.
Per senso non intendo qualcosa di univoco e statuario, un giudizio o qualcosa di eccessivamente mentale: la razionalità seleziona sempre ed è incapace di accogliere tutte le nuances del vissuto. Parlo di un senso dove amore e saggezza coesistono, ma senza obliterare l’io diurno, che ha vissuto l’evento in prima persona (e di solito ha capito poco delle ragioni dell’anima).
Quando mi avvicino ad una visione globale, che vede in trasparenza, il mio io non è più il loquace protagonista. Anche il corpo, le emozioni, le sensazioni, l’anima e lo spirito parlano. L’anima, nella mia ipotesi di lavoro, è la depositaria del senso. L’io accede al senso quando impara a guardare e a capire quello che guarda. Capisce se ascolta ed è capace di guardare e ascoltare se sente che dentro di sé c’è qualcosa di più grande di lui.
Se l’esperimento funziona, l’espansione di coscienza dovrebbe essere la conseguenza inevitabile. Non ho solo raccontato una storia – anzi, della storia alla fine non sarà rimasto molto, solo alcuni elementi imprescindibili e particolarmente evocativi – ma avrò trovato la maniera di descrivere un diagramma di forze, avrò svelato qualcosa, reso, in una qualche misura, l’invisibile visibile.
Ma come si arriva a questo? Probabilmente resistendo alla tentazione di fermarsi troppo presto e accontentarsi di qualcosa che non ha ancora svelato ciò che per noi conta veramente.
Benché io creda che l’anima sia la depositaria del senso a priori, potrebbe anche essere che il senso è ciò che siamo chiamati a inventare, a tessere e, se abbiamo perduto il filo, lo dobbiamo cercare, per non perderci nelle trame del mondo.
Abbiamo naturalmente anche bisogno di interrogare il senso e di osservarlo nelle sue sfaccettature caleidoscopiche. Ma soprattutto abbiamo bisogno di non accontentarci di vivere con le eterne domande ma cominciare a crescere nelle nostre risposte.
Quando mi chiedo che senso abbia avuto una determinata esperienza e mi metto a speculare ed analizzare, non arrivo mai ad una rivelazione che mi dia la soddisfazione e la pace interiore che io associo a quello che può essere incarnare il senso. A volte non posso trovare le parole, ma ho fiducia che prima o poi le parole verranno, fosse anche dopo molti anni di una tessitura che mi era parsa sterile.
A volte le parole saranno incomprensibili, ma in loro vibrerà l’energia di quel senso che è ineffabile. Una rivelazione prima o poi ci sarà sempre.
Ci vogliono infinite approssimazioni per arrivare a qualcosa di piccolo e prezioso che racchiude un mistero.
Non sapremo mai fino in fondo se il senso lo scopriamo o lo inventiamo. Quello che conta è che questo senso sia vicino all’amore e alla saggezza, il che non è poco, anzi è più di quanto molti scrittori straordinari hanno raggiunto nelle loro tormentate esistenze.
Il soul writing è una scrittura in cui tutte le parti di me collaborano senza che nessuna si renda autonoma. Idealmente alla fine mi sentirò in pace e un po’ più saggia di prima. Almeno non mi sarò persa su sentieri che altri avevano già tracciato, almeno non mi sarò arresa alla perdita di senso, che implica sempre anche una perdita d’anima.
È difficile fare soul writing? Forse, ma dato che è un processo evolutivo, si procede per gradi. L’elaborazione dei testi è la parte cruciale del processo. Ogni volta che si riprende un testo, si raggiunge un livello ulteriore di profondità o di sintesi. I testi sono sempre un po’ works in progress, non sono mai definitivi, non restano legati al momento o al luogo in cui sono nati, ogni nuova versione è una tappa successiva sul sentiero verso l’essenza.
Ovviamente, il perfezionismo e la vanità non devono entrare in questo spazio. Si procede finché non si sente che il testo rivela qualcosa di importante. Forse più che artigiane siamo levatrici…
Ci si può sbagliare? Sì, è ovvio, si rischia sempre di perdere la strada, ma non è grave. Prima o poi ci si accorge che qualcosa non torna. È tutto un affinamento del sentire e anche un po’ una dichiarazione d’amore alle parole come contenitori e veicoli.
Sto cercando di dire che sono un’esperta di soul writing? No, assolutamente no. Sono ancora un’eterna debuttante. Ho praticato questa scrittura in forma semicosciente e molto discontinua per decenni senza capirne tutte le implicazioni. Ora mi piace l’idea non dico di sistematizzala – perché non è un processo che possa essere costretto nei confini di un iter precostituito – ma di contemplarlo e di parlarne in modo un po’ più consapevole.
In fondo, per dirla ancora più semplicemente, il soul writing è usare la scrittura come processo di espansione di coscienza.
Questa espansione è un’impresa collettiva che facciamo uno alla volta, ognuno con i propri tempi di gestazione e ruminazione. Mi piace immaginare che al mondo ci siano tante persone che, una volta ogni tanto, scrivono un breve testo che rivela una saggezza che non sapevano di avere. Immagino questi testi come dispositivi magici, come scintille che cambiano qualcosa nel campo collettivo, anche se rimarranno per sempre chiusi in un cassetto (o nel ventre di un computer) finché un giorno non andranno perduti. Ma nel campo rimarrà sempre una traccia, non sono stati scritti invano. Sono un silenzioso contributo ad un processo che ci coinvolge tutti: la grande avventura che svela il senso.
Non è il bisogno di esprimersi il vero motore del soul writing, è l’impulso ad aprire il dialogo con le profondità dell’essere in entrambe le direzioni, verso il basso – l’inconscio, che è sempre, anche quando sembra intimamente personale, collettivo e condiviso – ma anche verso l’alto, verso la spiritualità, che sta ormai diventato sempre di più aconfessionale e aperta a linguaggi nuovi, che travalicano i confini delle culture.
Sto cercando di dire che con il soul writing possiamo scoprire il mistero della vita? Il mistero è sempre al di là della parola ed esula dall’ambito delle pratiche creative, che sono ancora un fare qualcosa, non un dimorare nel puro essere. Eppure esiste un modo di praticare l’arte che è meditativo, vicino alla contemplazione. Quindi la creatività è anche una propedeutica all’esperienza mistica. Tutti possiamo fare esperienze mistiche, tutti possiamo avere piccole illuminazioni o immaginare di averle per poi scoprire che in realtà non era solo immaginazione… Ma è vero anche il contrario, lo sappiamo, a volte ci convinciamo che si siano aperte le porte della percezione per accorgerci che erano solo piccoli deliri… Entrambe le esperienze direi che fanno ottimi testi di soul writing.
Il soul writing non vorrei che somigliasse a quelle piccole narrazioni edificanti da inspirational lit, in cui il lieto fine è sempre la realizzazione che siamo tutti un solo, immenso organismo e il nostro cuore pulsa all’unisono. No, non dobbiamo sforzarci di essere buoni, sarebbe controproducente, non dobbiamo manipolare nulla per far tornare i conti.
Nel soul writing si possono scrivere testi ombrosi, disperati e spietati, vomitare frasi di una nerezza angosciante, sfidare ogni forma di political correctness e esplorare luoghi nei quali sussurrano i demoni dei nostri incubi favoriti. Ma bisogna, prima o poi, approdare allo stadio successivo, in cui le ombre si dissipano e si trasformano. Basta non rinunciare troppo presto.
Un testo di soul writing può essere oscuro e criptico ma non sarà mai una scrittura che inghiotte e consuma. Prima o poi dovrà diventare qualcosa che libera e vivifica.
Naturalmente ci vuole un po’ di allenamento per sfuggire ad alcune trappole e trovare la voce e lo stile che non sono solo autentici ma anche trasformativi.
La scrittura in fondo è sempre esperimento ed esplorazione, acquisizione di competenze e gioco combinatorio.
All’inizio del percorso non si tratta di produrre testi particolarmente riusciti sul piano formale, ma di osservare cosa i testi ci svelano e cosa, attraverso la scrittura, sta prendendo forma.
Naturalmente sappiamo tutti che la forma plasma il contenuto e viceversa, quindi col tempo svilupperemo un’attenzione particolare ai dettagli, favorita dal fatto che i testi saranno per lo più brevi. Il soul writing può essere applicato a qualunque genere di testo, volendo anche al romanzo, ma sarà probabilmente un romanzo sperimentale, poco incline ad adeguarsi alle norme della narrativa, norme peraltro molto più elastiche di quanto si tende a credere, comunque norme che esistono per scopi che esulano un po’ dal soul writing.
Per trovare la nostra voce, ci dobbiamo lentamente discostare dal linguaggio del quotidiano e cercare altre strade. Ognuno ha un proprio stile. Non abbiamo bisogno di orientarci a modelli o misurare i nostri mezzi con quelli degli autori affermati che ammiriamo. Abbiamo solo bisogno di scoprire i nostri mezzi e di nutrirli.
Il soul writing non è solo una scrittura alla ricerca del senso, è anche una scrittura con tutti i sensi.
A volte le contraddizioni tra pensiero e sentimento ci tagliano fuori dal sentire a livello del corpo. Ma il senso ha una sua organicità, che abbraccia le quattro funzioni: oltre al pensiero e all’intuizione, coinvolge le emozioni e le sensazioni.
Se scriviamo con tutte le parti del nostro essere, la parola diventa un ponte, traduce, porta alla luce, rende comprensibile o perlomeno fa presagire un senso più grande, che una parte da sola non avrebbe potuto cogliere.
Ovviamente la parola può anche manipolare, travisare o imprigionare. Le parole sbagliate ci portano su false piste. Per questo il percorso di scrittura è anche un percorso dell’attenta osservazione: Che cosa ho veramente scritto? Mi dice davvero qualcosa? Mi sono ascoltata o mi sono fraintesa o perfino manipolata? Quale parte di me sta parlando attraverso questo testo? Come mi sono sentita durante la scrittura?
Al di là di tutti questi discorsi, che sembrano sempre un po’ troppo grandi per il nostro piccolo io (naturalmente non per la nostra anima, lei va molto al di là anche di questo…), il soul writing è anche un gioco sperimentale, la ricerca di modi per fare un’arte un po’ psicoattiva, che, nonostante l’apparente pesantezza delle indagini interiori, si può risolvere in una leggerezza che è conciliante e liberatoria.
Cos’è ancora il soul writing? È scrivere con i quattro elementi e farli dialogare fino a far nascere il quinto. (Su questa parte devo ancora riflettere ma mi sembra promettente…)
È fare un passo al di là delle storie, è usare tutto, soprattutto quello che la ragione butta via, è non arrendersi finché non si arriva a sentire il senso con tutti i sensi.
Cogliere il senso spesso è solo un attimo, poi tutto cambia e il senso si rivela diverso da quello che ci era parso di cogliere e così di seguito. Il viaggio non finisce mai. Ma almeno siamo in cammino e qualcosa di nuovo da scoprire ci sarà sempre. Staremo meglio e sapremo come dare il nostro micro-contributo ad un mondo più pacifico e inclusivo.
La scrittura è inoltre sempre la ricerca di una certa bellezza.
Un testo è bello quando è preciso e ha una potenza espressiva, quando non è composto da parole inerti ma muove l’energia in modo da portarla verso un’armonia. I testi sono decisamente forme di trasmissione energetica. Per questo è meglio se sono brevi, o lunghissimi ma composti da combinazioni di frammenti parzialmente autonomi, in modo che ogni frammento possa far scattare una scintilla.
Il soul writing non deve necessariamente trattare i processi interiori in forma autobiografica, può spaziare nell’immaginazione, può esplorare la scrittura fantastica. Quello che conta è che il risultato sia coerente con l’intenzione per la quale si intraprende il percorso.
Queste sono solo riflessioni preliminari. Continuerò ad esplorare il concetto. In questo caso, è certo che la pratica informa la teoria…
Comunque mi piace l’idea di fornire ispirazione a chi voglia praticare questa scrittura o a chi la pratica già senza accorgersene e ha bisogno di qualche consiglio per non perdersi strada facendo.
Ovviamente ognuno segue strade diverse, per cui è difficile guidare gli altri. E poi lo sappiamo tutti che sono quelli che non si lasciano guidare che prima o poi arrivano là dove non osavano sperare di arrivare (e dove nessuno avrebbe creduto potessero arrivare…).